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April 17th, Casa

5 di mattina. Suona la sveglia.

Here we go again.

Ancora 5 minuti in questo letto vuoto; un altra tazza di caffè; un altro viaggio.

Mi metto lo zaino in spalla, il passaporto in tasca, e per la prima volta in 4 anni mi chiudo alle spalle la porta di casa, la MIA casa.

Prendo una metro, un treno, un aereo. Verso un paese che ogni volta mi dice qualcosa.

Mentre voliamo sopra le alpi butto giù a forza i miei soliti due bicchieri di vino rosso—acidissimo—nella speranza di dormire. Nonostante le urla agonizzanti del bambino—indiscutibilmente posseduto—seduto dietro di me, riesco ad addormentarmi. Faccio un sogno strano: sono al telefono, è una telefonata che volevo fare da tanto; mentre il telefono squilla entrano nella stanza degli amici e mi urlano di riattaccare, buttando via il mio iphone.

Mi sveglio un po scossa, non dalle turbolenze, ma dalla consapevolezza di chi c’era dall’altra parte di quella telefonata.

Fanculo dormire, mi guardo un film, che è meglio!

 

April 18th, Hanoi

Appena esco dall’aeroporto l’aria umida e pesante mi ricorda subito di essere di nuovo ad Hanoi. È la mia sesta volta in Vietnam, sono venuta qui per la prima volta 4 anni fa, in un altra vita, con un poeta, e dal primo inconfondibile respiro umido questo paese mi ha rubato il cuore senza più lasciarlo.

Prendo un taxi verso Hoan Kiem, il quartiere vecchio. Guardando fuori dal finestrino, all’apparire dei primi campi di riso, dei bufali d’acqua, delle contadine con i loro cappelli a cono, mi sento malinconicamente felice e leggera.

É bello essere vivi, e di nuovo in Vietnam!

Arrivo in hotel.  Quattro piani di scale, la stanza umida e diroccata e la solita doccia sopra il water. Mi lavo via le 20 ore di viaggio, sono distrutta, ma Hanoi è lì fuori e non voglio perdermene nemmeno un secondo.

Chiamo Loan per dirle che sono arrivata e scendo in strada. Mentre la aspetto mi prendo un bicchiere di succo di canna da zucchero in un baracchino dall’aspetto meno che invitante e mi siedo sugli immancabili sgabelli di plastica, bassisimi, sparsi ovunque per i marciapiedi di Hanoi. Mi guardo intorno, ogni volta che torno in Vietnam lo trovo un po cambiato: ci sono più turisti nelle strade, più ristoranti con insegne che dicono “Pizza/Hamburgers/Tacos”,più auto, piu catene occidentali. Non sono cambiamenti che mi piacciono molto, tendo ad essere molto nostalgica per un passato che so che non può continuare ad esistere per sempre.

Loan si materializza 10 minuti dopo sul suo scooter bianco, bella come sempre col suo casco rosa di Hello Kitty. La abbraccio forte, è sempre una gioia rivederla. Ci siamo incontrate qualche anno fa su un bus a Bangkok, lei viaggiava con il padre e la sorella —la loro prima vacanza dopo la morte della madre—andavano a sud, io invece ero sola e stavo andando a nord per poi passare il confine con il Loas via terra. Ci siamo scambiate i nostri account IG e ci siamo riviste qualche settimana dopo a Hanoi—diventando subito amiche—e adesso ci vediamo ogni volta che ripasso da qui.

“Bun Cha?” mi chiede porgendomi il casco (fortunatamente non di Hello Kitty).

“Obviously!” le rispondo montando in sella.

Le strade sono incasinate come sempre, fiumi di scooters in tutte le direzioni che si incrociano senza badare alle leggi della fisica, venditori ambulanti urlanti, vampate di odori che ti fanno sognare o voler vomitare. Oh Vietnam, mi sei mancato!

Ci fermiamo in uno dei miei ristoranti preferiti, Bun Cha 34, aspettavo questo momento da 8 mesi! Faccio subito una story e la posto su instagram e mentre mi ingozzo come un oca Loan mi guarda con sospetto e (in inglese) mi dice:

“OMG, hai perso un sacco di peso babe…dimmi il tuo segreto!”

“Eh, basta farsi spezzare il cuore my friend!” rido, ma non c’è un cazzo da ridere.

“Aaww, cos’è successo? Raccontami!”

“Preferisco non pensarci più Loan. Raccontami di te invece, come va il nuovo lavoro?”

“Benissimo, mi piace, mi fanno viaggiare un sacco. Non pensavo avrei mai visto Berlino o Parigi e invece ero lì, sotto la Tour Eiffel, come nelle tue foto.”

“Aaww sono felicissima per te. Adesso però devi farti mandare in Italia, così vieni a trovarmi!”

“Oddio sarebbe un sogno!” mi dice mentre prende con le bachette una manciata di noodles e li inzuppa nella ciotola piena di brodo e pezzi di maiale grigliato “Pensi di rivedere il tuo expact Francese in questi giorni, come si chiamava, Julian?”

“Ah già Julian. Bo, non gli ho nemmeno detto che venivo…”

“Oh babe, hai davvero il cuore spezzato allora!”

Chiacchieriamo per ore fino a quando i 35 gradi e il jetlag iniziano a farsi sentire. Non voglio tornare in hotel, è ancora presto e non ho voglia di sprecare il mio primo giorno dormendo. Guardo Loan illuminata da un lampo di genio:

“Loan, è libero oggi  il tuo amico Chung?”

“Seriously?!” mi fissa mentre le faccio un sorriso paraculo e faccio si con la testa.

“…Ok si sei seria, lo chiamo aspetta” prende in mano il telefono e parla in Vietnamita “Ha un buco fino alle 6”

“Ottimo! Andiamo!”

Rientro in hotel la sera con due nuovi tatuaggi addosso: un Ganesh—il dio elefante indiano, rimuovitore d’ostacoli—sul polpaccio, e una mini ciotola di noodles con scritto sopra “to Tony”—un omaggio al mentore che non ho mai conosciuto ma che più di tutti mi ha cambiato la vita—sul fianco.

Mi butto sul letto esausta, chiudo gli occhi e ripenso all’ultimo anno, all’ultima volta che ero qui, a quanto sono cambiata da allora, a quanto le cose cambiano in fretta, a quanto tutto finisce prima o poi, e a quanti dei miei sogni sono svaniti in una telefonata 3 mesi fa.

Sento qualcosa smuoversi dentro di me e subito dopo sento qualcosa sfiorarmi il ginocchio. Apro gli occhi e vedo uno scarafaggio grosso come il palmo della mia mano che mi passa sopra, catapultandomi fuori dalle mie solite seghe mentali.

Che schifo cazzo!

Scorpioni, ragni, serpenti, ormai ci sono abituata, ma gli scarafaggi non smettono mai di ripugnarmi. Ispeziono la camera rassicurandomi che non ci siano altri amici a 6 zampe nei dintorni e torno a letto. Meglio cercare di dormire un po, devo essere in forma domani, arrivano le ragazze. Le porterò in giro per 10 giorni, per fargli vedere il mio Vietnam, quello di cui mi sono innamorata, e spero se ne innamoreranno anche loro.

Mentre mi addormento arriva un messaggio su whatsapp:

“Ho visto le tue stories. Perchè non mi hai detto che eri qui? quanto ti fermi?

Se hai tempo per una birra vorrei tanto rivederti.”

 

…Dannato instagram!

 

April 20th, Hanoi

Porto le ragazze a vedere un quartiere attraversato dalle rotaie dove il treno passa tra le case un paio di volte al giorno. L’avevo trovato per caso durante il mio primo viaggio in Vietnam, stavo camminando—a cazzo—per Hanoi e mi ci sono trovata in mezzo. Sembrava di essere entrati in un mondo senza tempo: c’erano delle vecchiette che cucinavano piatti misteriosi sedute sulle rotaie, uomini che giocavano a backgammon sull’uscio di casa, bambini che correvano, polli che scorazzavano ovunque. L’anno dopo ci ero tornata e avevo fatto una delle mie foto patinate per instagram, senza dargli alcun peso. Ma il peso di quella foto innocua mi ha schiacciata alla vista di cosa è diventato questo posto allora magico: non ci sono più vecchiette e bambini sulle rotaie, nemmeno un pollo, solo una sfilza di bar e negozi di souvenirs e un centinaio di turisti mezzi ubriachi che si fanno un selfie dietro l’altro sui binari invasi, con musica UNZ-UNZ sparata a canna di sottofondo. Non è questo il Vietnam che volevo far vedere.

Mi sento sprofondare in un buco nero e fetido, il mio cuore ci affonda dentro per ore.

Mi riprendo la sera, mentre siamo a cena con Loan in uno dei ristoranti che fa il pho più buono di Hanoi, dove locals e turisti divorano scodelle fumanti con facce felici. Sto imparando—un po a fatica—a non perdermi troppo nelle mie crisi esistenziali, e a concentrarmi sulle piccole cose, sui piaceri quotidiani, come questa scodella di pho che ho davanti, le birre appena arrivate al nostro tavolo e la compagnia di chi ho intorno.

Mando giù tutta la mia amarezza insieme ai noodles di riso e mi godo la serata.

 

April 29th, Hoi An

É mezzanotte, l’aria calda profumata di gelsomino e  frangipani mi sfiora gentilmente le spalle, c’è silenzio tutto intorno, le ragazze sono in camera, Kieth e sua moglie Lien stanno sparecchiando la tavola, i bambini dormono e io sono seduta a scrivere a bordo piscina. Il viaggio è quasi finito, le ragazze rientrano in Italia domani e io mi fermo ancora qualche giorno ad Hanoi.

Sono sfinita dalle poche ore di sonno e dagli spostamenti continui. Nei giorni scorsi siamo state in tanti posti che avevo già visto diverse volte ma che ho rivisto con occhi diversi. Per tutto il viaggio oltre alla mia domanda ormai perenne “Che cazzo sto facendo?”, continuavo a chiedermi: “Ma lo amo ancora così tanto questo Vietnam?”, senza mai riuscire a darmi una risposta. Perchè il Vietnam sta cambiando, si. A Halong Bay ormai ci sono più barche da crociera che pesci, l’inquinamento è sempre meno sostenibile, le famiglie di pescatori che vivono sulle case galleggianti sparse per la baia stanno iniziando ad essere spostate sulla terra ferma dal governo: là i loro figli possono andare a scuola più facilmente ma i genitori si ritrovano a dover imparare a guadagnarsi da vivere in modi nuovi, e non sempre ci riescono bene. A Ninh Binh adesso invece che pagare il giro in barca alle signore che remano con i piedi bisogna pagare il ticket in biglietteria e poi dare la mancia alle signore, perchè dei 200K dong pagati non so quanti poi ne vedano loro. Anche alla pagoda di Hang Mua è cambiato tutto, la prima volta che ci sono stata non c’era niente, una strada diroccata che portava al percorso di 500 scalini e una volta arrivati in cima non c’era un anima, solo il silenzio e il paesaggio che ti toglieva il fiato; adesso invece sembra di essere a Gardaland e in cima ci sono code per fare la solita foto per instagram.

Mi sta passando sempre di più la voglia di fare quelle foto, non ne vedo più il senso. Voglio continuare a vedere il mondo e la sua gente e farlo vedere e raccontarlo anche a chi sta dall’altra parte dello schermo e magari non può muoversi da casa, ma allo stesso tempo il senso di colpa che sento a volte—quando capisco che nel loro piccolo, le mie foto non fanno sempre solo del bene—è forte, e mi viene da chiedermi se è il caso di continuare o se forse è meglio trovare nuovi mezzi per raccontare le mie storie.

Tormenti etici eterni.

Kiet mi porta una birra e si siede accanto a me. Non l’ho visto molto in questi giorni. Un paio d’anni fa avevo vissuto a casa loro per un mese, passavamo un sacco di tempo insieme a bere caffè vietnamita e parlare di vita, arte, idee, sogni. La loro villa-homestay si trova sulla sponda del fiume, in una zona di campagna tranquilla fuori dal centro iper turistico e iper affollato di Hoi An. Era stato uno dei mesi più spensierati della mia vita, c’erano state un sacco di albe in bici nei campi di riso, pranzi al mercato, camminate al chiaro di luna in spiaggia, Julian—i cui messaggi sto continuando a sviare anche se lui continua a martellarmi imperterrito—tutto era più leggero all’epoca, ero ancora una gocciolina bionda che stava scoprendo il mondo e non si faceva troppe domande.

“Mi sembri stanco Kiet” gli dico alla vista delle sue occhiaie ogni anno più profonde.

“Sono stati sei mesi molto molto busy” mi dice in broken-english.

“Ma gli affari vanno bene no? siete sempre pieni!”

“Si, si, benissimo. Molto business, però sempre meno tempo.”

“L’altra faccia della medaglia eh?!”

“Non voglio perdermi la vita dei miei figli Sara, crescono troppo in fretta, vorrei rallentare un pò. Anche tu mi sembri stanca però, e sei magrissima, l’estate scorsa eri più in forma, più energia, sempre di corsa.”

“Lo so. Sono stati mesi un po di merda. Sto imparando a rallentare anch io Kiet, come mi ha detto qualcuno un po di tempo fa, non può essere sempre tutto una sfida.”

“Al tempo!” sorride alzando la sua birra e toccando la mia.

 

May 5th, Hanoi

Un altra ultima sera, un altra tazza di caffè, un altro goodbye.

Loan è appena sfrecciata via sul suo scooter bianco sparendo nella notte. Mi si stringe sempre il cuore quando devo salutarla.

La pioggia batte sulle strade di Hanoi, le luci degli scooters si riflettono nelle pozzanghere, il vociare delle signore che cucinano a bordo strada, il profumo di caffè e la puzza di Durian riempiono l’aria. Assorbo tutto quello che ho intorno, finchè c’è, finchè sono ancora qui.

Mi siedo in uno dei cafè e ordino un cà phê sữa, caffè vietnamita freddo con latte condensato dolce. Tra un paio d’ore incontro Julian, alla fine ho ceduto, più per sfinimento che per altro.

Abbiamo un passato io e lui, ci siamo incrociati e persi per un soffio tante volte negli anni, scene un po da film. Ma stasera non ho voglia di vederlo. Non sono più la ragazza sempre in cerca di emozioni forti che ha incontrato anni fa su una barca a Halong Bay, è tutto diverso adesso, e stasera c’è un fantasma—il cui ricordo diventa sempre più sfuocato—che aleggia ancora dentro di me; pensavo di esser riuscita a liberarmene ma questo viaggio me l’ha riportato tra i pensieri, perchè mentre facevo vedere questo paese alle ragazze non riuscivo a non pensare che avrei tanto voluto farlo vedere a lui, il mio Vietnam.

Sorseggio il mio cà phê sữa scacciando subito via quest’ultimo pensiero e inizio a scrivere su un quaderno tirando le somme, come ogni ultima sera di ogni avventura.

Pensieri sconnessi riempiono la pagina.

É stato un viaggio pieno di alti e bassi, un viaggio attraverso sentimenti contrastanti. Non sono riuscita a dare il 100% alle ragazze che ho portato in viaggio, mi sto ancora abituando al mio corpo nuovo e un po più fragile, sto ancora rattoppando un cuore crepato che però adesso sa di nuovo battere, sto ancora imparando a capire che non spetta a me pensare al destino del mondo. Il Vietnam sta cambiando in fretta, e la mia vita pure. A volte vorrei fermare il tempo, chiedergli un attimo in più, farlo tornare indietro; ma la vita va avanti lo stesso, non aspetta nessuno, e inizio davvero a capire che il cambiamento è l’unica cosa che non cambierà mai.

Chiudo gli occhi, faccio un respiro profondo e ripenso a queste settimane. Vedo le folle di turisti, i posti magici snaturati, le barche da crociera. Faccio un altro respiro e vedo il viso di Loan, le occhiaie di Kiet, il sorriso della vecchietta che mi ha regalato una testa di Buddha di legno, le mani delle signore che remano con i piedi  accovacciate per terra sotto un albero durante la loro pausa pranzo che mi porgevano scodelle piene di cibo e toccavano i miei tatuaggi…e mi ricordo perchè ho iniziato a viaggiare.

Sento un marasma dentro, chiudo il quaderno, lascio una manciata di dong sul tavolo e inizio a camminare—a cazzo—sotto la pioggia.

Cammino per un ora, per il mercato, per i vicoletti dietro la Cattedrale di St.Joseph, fino al lago di Hoan Kiem. Cammino e ripenso a quante ne ho passate. Ripenso agli anni vissuti a Los Angeles, a Las Vegas, a Londra, a New York. Ripenso agli anni passati in viaggio, a instagram. Ripenso a quando ho lasciato il mondo della moda e che presto dovrò lasciare quello del turismo. Ripenso a quella telefonata che ha fatto sfumare i miei sogni e a quella che non sono riuscita a fare nel mio sogno sull’aereo. Ripenso ai mesi di merda che ho passato ultimamente, ai 12 Kg che ho perso, a chi mi aveva detto che ero depressa quando invece mi ero solo innamorata davvero, per la prima volta, a 30 anni. Ripenso a chi ero prima, penso a chi sono adesso, a chi non vorrò mai più essere e a chi voglio diventare.

Prendo in mano il telefono e mando un messaggio:

“Julian, I’m sorry, I can’t make it tonight.”

 

Tornando verso l’hotel mi sento in pace. Tranquilla nel mio casino esistenziale.

Mi siedo sui gradini dell’hotel per un ultima sigaretta. Hanoi davanti a me, come lo schermo di un cinema.

Bandiere rosse e gialle svolazzano fuori dalle case, una donna cammina in mezzo alla strada trasportando un bouquet gigante di palloncini ad elio, una famiglia intera—mamma papà e due bimbi—passa veloce su uno scooter, una vecchietta sul marciapiede accende un fuoco sotto una pentola , una ragazza spinge lenta una bici carica di frutta, una madre e un figlio che indossano pigiami uguali si scambiano baci sull’uscio di casa, un venditore ambulante vestito di verde e un cappello militare urla cantilene in vietnamita,  ragazzi di tutte le età ridono e chiacchierano seduti sugli sgabelli di plastica bassissimi a bordo strada sorseggiando caffè. Tutto cambia, tutto rimane uguale.

Il Vietnam che amo è ancora qui!

 

Love, 💕

—SÂ