22 9/3/20 Casa

È una sera di fine inverno, la pioggia batte leggera sull’asfalto, le strade del centro sono semi deserte, bar e ristoranti chiusi, luci nei palazzi accese. Il silenzio spettrale che aleggia sulla città è interrotto qua e là dalla sirena di un ambulanza, oggi mi sembra di notarle più del solito. Mentre Krafen—il mio bassotto killer—annusa ogni centimetro di porfido del mio vicolo in cerca di tracce di urina di altri cani tiro un respiro profondo per assaporare l’aria fresca di pioggia dopo una giornata passata in casa davanti al pc, ma puzza di piscio.Una signora con la mascherina passa dall’altro lato della strada, i nostri sguardi si incrociano per un secondo, ci vedo dentro un velo di diffidenza, un tacito: “sarai tu a infettare me o io a infettare te?”, e in un attimo la surrealità di queste ultime settimane mi colpisce come un mattone in testa.

Sono giorni di incertezza, per tutti. Quella che solo poche settimane fa è stata trattata come l’ennesima notizia acchiappa-click, così distante da noi, oggi sta ribaltando le nostre vite. Intaccando la nostra sacrosanta libertà, che in tanti fino ad oggi davamo per scontata.

Io a questa libertà ci ho pensato spesso. Ci ho pensato leggendo “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni. Ci ho pensato quando ho dovuto spedire dall’italia i documenti per l’iscrizione ad un università canadese per conto di una mia amica Iraniana che non poteva farlo da se dal suo paese. Ci ho pensato quando in Nepal ho intervistato con un ragazzo figlio di rifugiati tibetani, a cui non è mai stato concesso un passaporto.  Ci ho pensato lunedì scorso quando il mio volo per il Vietnam che doveva partire tra qualche giorno è stato cancellato e l’entrata senza visto per gli italiani è stata revocata, e ci ho pensato ieri, quando la notizia che la Lombardia era diventata zona rossa è diventata ufficiale e milioni di persone si sono ritrovate dall’oggi al domani costrette all’immobilità.

Io—che del viaggio ne ho fatto un mestiere—faccio parte di quelle persone. Negli ultimi 5 anni vivo un continuo fare e disfare lo zaino,  un loop infinito di aeroporti, aerei, bus, treni, taxi, camere di hotel, guesthouses, pavimenti di capanne in qualche angolo sperduto di mondo, per scelta. Il movimento è routine, il viaggio non è solo un lavoro, è il mio modo di vivere, di essere. La mia paura più grande è quella di non potermi più muovere, oggi la sto vivendo. E non vi nascondo che il mio primo istinto alla notizia della cancellazione del volo per il Vietnam è stata quella di dirottare verso una meta dove gli italiani erano ancora ammessi. Ma ormai ho imparato che la paura—quella vecchia stronza—è la peggiore consigliera.

Quando Krafen finisce di annusare ogni pisciata nel vicolo rientro nel mio minuscolo bilocale bresciano. Accendo un incenso davanti a una statua di Ganesh, il dio indiano rimuovitore d’ostacoli—che in questi giorni avrà sicuramente un gran da fare—e mi metto alla scrivania—con dietro  la carta-da-parati-coi-cactus-che-fa-molto-asilo-svedese—davanti a una pagina bianca del blog. Guardo lo schermo cercando di trovare le parole giuste ma ultimamente scarseggiano, perchè oggi più che mai mi rendo conto di non sapere veramente un cazzo. Sui social sono silenziosa in questi giorni, su instagram vedo gente che fa scenate di indignazione al comparire di ogni notizia, c’è chi fa finta di “voler fare qualcosa per voi” e ne approfitta per vendere il millesimo inutile corso-fuffa online, e c’è chi cavalca l’onda dello sdegno altrui per elemosinare likes, engagment, reposts, nutrendosi delle paure di chi li segue. Non voglio aggiungere paglia al focolaio di opinioni non richieste che infettano gli altri tanto quanto il virus, non ho ne le competenze ne le conoscenze per fare informazione sull’argomento, non sono e non voglio essere un opinionista,  per cui, per ora, sto zitta.

Ritorno col pensiero a poco più di due settimane fa, ero in macchina verso Malpensa, tornata la settimana prima dalla Tanzania—distrutta e felice dalla scalata sul Kilimanjaro—in rotta verso Parigi per un viaggio a sorpresa che il mio ragazzo mi ha regalato per festeggiare il contratto per il tanto sognato libro; entravo e uscivo dal dormiveglia e di sottofondo sentivo la radio che diceva:”Sono 16 i casi di Coronavirus confermati in Italia, ieri il primo decesso, un uomo di 78 anni…” ricordo di aver pensato alla sceneggiatura di un film visto qualche anno fa. Ma stamattina quando, finito di leggere le ultime news—che dicevano che i morti erano oltre 300—ho chiamato mio papà e mi ha detto che aveva tosse e 38.5 di febbre, l’angoscia che si è impossessata di me non aveva niente di fantascientifico.

Ci abbiamo scherzato su, abbiamo preso per il culo gli ipocondriaci della prima ora con meme e video su whatsapp—e va bene riderci su perchè magari l’ironia non salverà il mondo, ma sicuramente lo rende più tollerabile—ma davanti all’evidenza non si può rimanere indifferenti, non ci si può intestardire incatenati alle proprie convinzioni, e, sopratutto quando ci sono delle vite in ballo, bisogna ammettere di aver sottovalutato un problema. Un problema che non sembra reale finchè uno dei ‘casi’ prende il volto di qualcuno che conosciamo, o peggio ancora di qualcuno che amiamo.

Lo squillo del telefono mi riporta alla realtà sempre più surreale. È Silvia, una delle mie più care amiche, che lavora all’Ospedale Civile di Brescia. Parliamo per una mezzoretta, mi racconta dei ritmi massacranti con cui stanno lavorando, mi si torce lo stomaco realizzando le difficoltà delle scelte che si trovano costretti a prendere ora dopo ora negli ospedali. Riaggancio sprofondando in uno sconforto a cui non sono abituata, sconforto che si amplifica ulteriormente qualche minuto dopo quando sento il discorso di Conte di sottofondo. Tutta l’Italia da domani è zona rossa.

É ufficiale, ora più che mai, siamo tutti nella stessa merda.

Stiamo vivendo un momento storico mai visto prima,  una situazione di cui fondamentalmente nessuno sa un cazzo se non chi la sta vivendo e vedendo in prima linea faccia a faccia (negli ospedali). Naufraghiamo nell’ignoto, e l’ignoto, fa paura, si sa. Quando si ha paura è facile scegliere il lato peggiore di se, rifugiarsi nell’egoismo, soccombere all’egotismo, farsi dominare dall’ignoranza e dagli istinti più bassi, come un animale in trappola. E quindi vediamo scene spiacevoli: il giornalismo che fallisce,  gente che scappa dalle zone rosse prendendo d’assalto i treni notturni, giovani che continuano imperterriti ad affollare locali e piazze incapaci di rinunciare ai loro cazzo di aperitivi—perchè tanto “il problema non li riguarda”—raduni di puffi oltre le alpi…

E come sempre dall’inizio della storia dell’umanità, a rimetterci sono i più deboli.

Ma forse, forse, per una volta, potremmo smetterla di farci assorbire dal nostro ego e pensare in scala più ampia, pensare in termini di insieme, di comunità, di umanità. Perchè alla fin delle finite, questo gran casino ci riguarda tutti, e prima ce lo leviamo dalle palle prima possiamo tornare ai nostri viaggi, alle nostre vite di tutti i giorni, ai nostri cazzo di aperitivi. Vivi, e sopratutto non orfani, magari anche evitando di trovarci l’esercito sotto casa.

Sacrifici per il bene comune, mettere da parte—molto temporaneamente—dei diritti perchè ci sono dei doveri a cui pensare. Concetti difficili da applicare in una società sempre più individualista; ma di fronte ad un emergenza globale che sta strappando vite e capottando intere industri buttando milioni di persone col culo per terra, forse starsene un po a casa non sembra poi così una tragedia.

Mentre aspettiamo che la vita torni alla normalità, cercando di non cedere a psicosi e depressione, il modo migliore per non smattare è cercare di usare questo tempo di immobilità a nostro favore. Non sono nessuno per dirvi cosa dovreste fare, non vi dirò “state a casa”—l’hanno già fatto tutti—vi dico solo, come sempre, di usare il buon senso, di pensare con la vostra testa—che funziona molto meglio quando ci si disintossica dai social e dalla TV, evitando di farsi contagiare dalle opinioni altrui e farsi usare dai cacciatori di engagement a cui interessano solo i vostri click, pollici alzati e cuori dal doppio tap—e di cercare di sentirvi parte di qualcosa di più grande, qualcosa che va oltre il solito ‘me’. 

Non sappiamo quando finirà, ma finirà. Come dico sempre, l’unica cosa che non cambia mai è il cambiamento. E una volta finito questo incubo distopico forse ci avrà insegnato qualcosa. Abbiamo tutti molto su cui meditare…approfittiamone!

Guardo il mio zaino che per un po resterà vuoto, penso al libro che devo finire, accarezzo il mio cane e abbraccio il mio ragazzo e il mio pensiero va a chi in questo momento non ha nessuno al suo fianco. Vado a dormire con qualche nuova consapevolezza, tipo che tutto può cambiare da un momento all’altro, che non siamo in controllo di niente se non della nostra mente, dei nostri pensieri e delle nostre azioni, che spesso hanno conseguenze; che la paura è più contagiosa di qualsiasi virus e che bisogna scegliere con cura chi ascoltare. E, una volta finito tutto questo, se sentirò ancora qualcuno dire: “Devono restare a casa loro” o “quelli ci portano le malattie”, mi tratterò dal sputargli in un occhio e gli ricorderò come ci si sentiva ad essere italiani nel ‘Febbraio-Marzo 2020’.


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P.S. Alla fine ho detto la mia comunque—per quel che vale—perchè a volte è difficile star zitta quando c’è troppo rumore dannoso intorno, il chè forse mi rende un ipocrita, ma innocentemente. Ho pesato ogni singola parola, perchè le parole, quando qualcuno le ascolta—che siano 10 persone o un milione—non hanno solo un peso, hanno conseguenze.