Come promesso, eccovi un estratto dal libro che sto scrivendo (che procede, lentamente ma procede!). Questo libro parla di me ma per parlare di tante cose: parla di sogni, di creatività, di fallimenti, di sesso, di dipendenza, di viaggio, di movimento, di cambiamento, di amore, paura dolore, di casa;, ma sopratutto parla di Coraggio. Il coraggio di rischiare, di cadere, di essere deboli, vulnerabili, di mettersi in discussione, di mettersi—o rimettersi—in gioco, di mandare tutto a puttane; il coraggio di comprare la vita a scatola chiusa. Perchè se non ci si butta, se non ci si fida di questo strano posto chiamato vita, si rischia di vivere solo a metà, da “spettatore non pagante” (cit Willie Peyote). La vita va vissuta non vista.

Buona lettura!

April 2019 – Casa

É un lunedì mattina come un altro ma è tutto diverso ormai.

Pedalo per le strade del centro, con i Mumford nelle orecchie…

🎶Rate yourself and rake yourself, Take all the courage you have left,
And waste it on fixing all the problems that you made in your own head
🎶

… il caos in me dopo la seduta dalla psicologa—una delle DUE che sto vedendo—di oggi.

Lego la bici a un palo e entro dal fruttivendolo.

Ciao Ramad! mi dai un po di zenzero, un po di curcuma, e due cassette delle mele vuote?”

Ancora??!” mi chiede lui esasperato scuotendo la testa e avviandosi verso il retro del negozio. Ramad è un ragazzo Bengalese che però non vede il Bangladesh da 13 anni, e nell’ultimo mese passo a chiedergli cassette della frutta ogni due giorni (ci sto costruendo la libreria).

Mentre lo aspetto do un occhiata in giro. Sugli scaffali ci sono barattoli di tamarindo, cardamomo, semi di mostarda, foglie di curry; c’è aria di India, ma non sono più in India: sono in Via San Faustino, nel cuore del centro storico di Brescia, e in India, dopo come sono stata l’ultima volta, non penso potrò tornarci per un pò.

Ramad torna con due cassette in mano. “Guarda che non ne ho più fino a Domenica!”

Ok, ok! A Domenica, Dhan’yabāda!” (che vuol dire grazie in Bengali)

Pago, esco, apro il portoncino, salgo le scale e mi chiudo alle spalle la porta di casa. La MIA Casa. Mi fa ancora tanto strano dirlo. Erano 3 anni—da quando ho lasciato il mio amato appartamento nell’East village a NYC—che non avevo una casa.

La prima volta che ero venuta a vederla questa casa—la MIA casa—mi sono detta: “Non vivrò mai in questa topaia!”. E invece eccomi qui, due mesi dopo, a appoggiare la spesa sul tavolo e farmi la terza tazza di caffè di oggi, in questa casa che non sembra nemmeno più così tanto una topaia adesso, ma sembra tanto mia.

Accendo un incenso, mi accendo una sigaretta e mi siedo alla scrivania con dietro la carta da parati coi cactus—che fa molto asilo svedese—dove c’è il mio mac, sul quale mi aspetta una pagina bianca che è bianca da Gennaio, da quando tutto ha iniziato a finire. Da quando mi si è spezzato il cuore.

L’ultima volta che ho scritto qualcosa di vero sul blog vi avevo lasciati in Nepal, in quella stanza d’hotel a Thamel dove avevo iniziato a sentire il bisogno di casa, dove avevo iniziato a volere qualcosa e qualcuno da cui tornare dopo un viaggio, dove avevo iniziato a innamorarmi.

Sento un tonfo al cuore a dirlo ma mi sa che la vera me ci è rimasta fino a ieri in quella stanza.

Mi siedo, bevo un sorso di quella brodaglia americana che per me è ancora l’unico vero e possibile caffè la mattina, faccio un tiro di sigaretta e fisso la pagina bianca che mi fissa di riflesso, con giudizio, come succede tutti i giorni da quasi 3 mesi, mi sfida, mi fa sentire immobile, inutile. Ogni giorno non scritto è un fallimento, un tradimento a quella che ero prima, prima di aver sentito tutto, prima di lui…

 

 

Lui.

L’ho conosciuto tramite un ragazzo con cui avevo fatto un viaggio “C’è un mio amico che potrebbe darti una mano con i video, gli do il tuo numero!”.

Mi ha scritto in inverno, mentre i miei mesi volavano ancora. Ieri ero in Tanzania, oggi in Giappone, domani in Myanmar, dopodomani…bo, chissenefrega! Poi è arrivata l’estate e abbiamo deciso di incontrarci, così per conoscerci e buttar giù due idee.

Per convincermi ad andare da lui mi ha mandato un video-tour narrato di casa sua su whatsapp. Era la cosa piu strana, intelligentemente stupida, divertente e carina che un ragazzo avesse mai fatto per me.

Sono andata.

Senza pensarci due volte. Sono arrivata in quella casa—la stessa casa che sei mesi dopo avrebbe ospitato quei 3 giorni, i 3 più pieni e devastanti della mia vita—una mattina di Luglio, per vedere se potevamo lavorare insieme un giorno.

E’ successo subito, così, la prima sera, seduti sul balcone, sulle note di Alan Walker. Abbiamo parlato del bene, del male e del mondo; “Sei una gocciolina, non ce ne sono tante come te” mi ha detto, quasi con pietà di fronte alla mia testardaggine da sognatrice, prima di baciarmi. Un bacio infinito finito in un abbraccio così vero e umano che racchiudeva tutto il dolore e la paura per un mondo che sta andando nel senso sbagliato; un abbraccio che non dimenticherò mai perchè nessuno mi aveva mai abbracciata così, perchè erano anni che non mi lasciavo abbracciare, perchè quell’abbraccio così onesto mi ha fatto sentire viva dopo tanto tempo che non sentivo più niente; dopo 5 anni di una relazione travagliata, sbagliata, dove l’amore forse non c’era mai stato e finita nel peggiore dei modi: con la mia faccia sul pavimento; dopo 4 anni di continuo movimento dove finivo in troppi letti diversi volatilizzandomi la mattina dopo; dopo una vita passata a chiudere tutto fuori e non lasciare passare niente dentro.

Sono stata là—in quella casa con quel balcone in quel paesino, in quel letto che non rivedrò mai più—per un paio di giorni. Giorni spensierati. Ero serena, leggera, libera, un pò sorpresa che la vita per una volta fosse riuscita a meravigliarmi.

Era tutto come doveva essere. Crudo, umano, Vero.

No bullshit.

L’ultima mattina era il suo compleanno, non lo conoscevo ancora ma gli ho regalato un libro di poesie di Bukowsky prima di tornare da dove ero venuta, e qualche settimana dopo è venuto lui a trovare me, nelle mie montagne, e poi sono partita per un altro viaggio, come ho fatto sempre.

Ma a differenza di sempre questa volta invece di lasciarmelo alle spalle—in quel-letto-in-quella-casa-con-quel-balcone-in-quel-paesino—il suo pensiero mi ha seguita tra le montagne del Ladakh, sulle spiagge della Thailandia, tra i mercati di Kuala Lumpur, e tra i campi di riso del Vietnam.

Succede che sulla tua strada incroci le vite di tante persone e ti passano tutte addosso,  poi un giorno ne incontri una che non passa. Ti rimane dentro. Forse perché la riconosci, forse perché ti riconosce. E qualcosa cambia.

Non me ne sono accorta subito, non ero nemmeno sicura mi piacesse davvero: era un po’ sfigatino, piccolino, non in forma smagliante come tutti gli uomini statuari che avevo avuto prima; era l’opposto di me: precisino, riservato, cinico, brutalmente realista e palesemente egoista, chiuso come solo chi è stato buttato nel baratro più oscuro della vita sa essere, ermetico come solo chi ha paura di tornarci in quel baratro può diventare. Ma mi faceva ridere, mi piaceva la sua testa, le parole che usava, come rollava le sigarette; mi piacevano i suoi occhi che raccontavano ferite, la luce che aveva in essi quando parlava delle cose a cui teneva, il modo in cui rideva e come si vedevano i suoi denti un po storti quando lo faceva, e poi quella sua tenerezza che intravedevo ogni tanto, nascosta dietro quel personaggio narcisetto e un po paraculo, che si era costruito.

Vedevo una persona con tanto da dare al mondo. Vedevo un anima affine. Ora—dopo mesi di terapia con DUE psicologhe—so però che quelle prime volte in lui vedevo sopratutto una persona innocua, che non sarebbe mai riuscita a mandarmi fuori asse, figuriamoci a ferirmi.

E allora l’ho lasciato succedere.

Per la prima volta nella mia vita qualcosa è sgusciato nella mia bolla impenetrabile che pensavo di aver sigillato perfettamente. La bolla che mi ero costruita per proteggermi dalla paura, dall’amore, dall’abbandono, dal dolore, dalla paura-di-amare-qualcuno-che-mi-avrebbe-abbandonata-facendomi-male. Facendomi perdere me.

E poi la vita stessa, bella, bastarda— ironica, col senno di poi—come è sempre, ci ha fatti ritrovare in Nepal, a Settembre, per un lavoro; e dopo il lavoro siamo rimasti per un progetto nostro, che era poi il mio sogno nel cassetto, quello con la S maiuscola. E giorno dopo giorno, tra un intervista, una foto, un filmato, un piatto di momos e una notte aggrovigliati l’uno all’altra in quella-stanza-di-hotel-a-Thamel, la mia bolla ha iniziato a esplodere.

Innamorarsi,

Che gran casino. Non so dirvi cosa è stato, è successo tutto in fretta. Mi ricordo solo che un giorno in una strada di Kathmandu c’era una bella luce e tanta polvere e lo guardavo filmare i bambini salire su uno scuolabus, e quello che aveva in faccia—cioè lo sguardo e il sorriso con i denti un po storti di qualcuno che sta facendo quello che ama fare—mi ha fatto sentire le farfalle nello stomaco; e poi su un bus per Pokhara dopo un bacio un pò diverso ho sentito qualcosa—forse l’ha sentito anche lui, forse almeno per un attimo, forse non lo saprò mai—l’ho sentito in pancia, in gola, in testa, anche nelle gambe.

Qualcosa…qualcosa di…qualcosa di infinito.

E è cambiato tutto. E non l’ho mai più visto come prima, come lo sfigatino-innocuo, ma come un Universo, più grande di tutto, più grande di me.

L’ultima sera in Nepal, in quella-stanza-di-hotel-a-Thamel, ho iniziato a sentire, sentire davvero. Non capivo ancora cosa sentivo ma era bello, e volevo tanto che il tempo si fermasse lì. Perchè fino ad ora il tempo mi era scorso addosso velocissimo, più veloce di come scorre per gli altri, quelli che hanno una casa e una vita che li aspettta là dove l’hanno lasciata dopo un viaggio; perchè io di case ne avevo cambiate 13 negli ultimi 10 anni e da 3 di anni non ne avevo manco una. E ho iniziato a pensare che forse, per una volta, valeva la pena rallentare un po. Fermarsi un attimo, far avvicinare qualcuno, avvicinarsi a qualcuno, smettere di scappare, mettere qualche radice. Perchè lui tornava alla sua vita, in quella-casa-con-quel-balcone-in-quel-paesino, ma io non avevo una vita a cui tornare, la mia vita ero solo io e forse i miei viaggi, e casa non avevo ancora capito cos’era.

Io che avevo sempre e solo pensato a me stessa, scappando da continente a continente per sentirmi libera, per non legarmi, per non soffrire, per non sentire, per non crescere, adesso ero uscita un po da me…e lì ho iniziato a non capirci più un cazzo…

 

 

Cazzo!”

Salto sulla sedia al suona aggressivissimo del campanello di casa, catapultata fuori dal mare di ricordi indesiderato appena tornato a galla.

E’ il corriere. Mi consegna un pacco, lo apro, è un libro—di Bukowsky—lo appoggio dentro una delle cassette di Ramad che stanno diventando una libreria.

Quando me ne sono andata da New York ho regalato tutto quello che avevo ai senza tetto e mi sono tenuta solo due valige, una era piena di libri, e adesso anche quei libri hanno finalmente un casa, la MIA casa, una casa senza TV e senza microonde con la carta-da-parati-coi-cactus-che-fa-molto-asilo-svedese, che prima sembrava una topaia e adesso è piena di piante e ricordi portati dai miei viaggi e profuma di incenso e di caffè. Una casa che forse all’inizio avevo voluto per stare un pò più vicina a Lui.

Ma Lui non c’è più, e forse non c’è mai stato.

Mi risiedo davanti alla pagina bianca assalita di nuovo dai ricordi prepotenti, e inizio a sentire quella malinconia ormai troppo familiare che sale.

Non ce la faccio.

Non riesco a scrivere, non riesco a pensare, non voglio sentire. Mi alzo, mi metto il cappotto, prendo le chiavi e faccio quello che ho sempre fatto per smaltire le cose brutte nella mia testa: cammino.

Cammino per i vicoletti e arrivo fino al castello che guarda la città distendersi dall’alto, e ad ogni passo mi ricordo che qualche mese prima, quando-tutto-ha-iniziato-a-finire, non ero nemmeno più sicura di come si facesse a camminare. Perchè l’amore, se non l’hai mai conosciuto o non hai mai provato a conoscerlo, quando poi entra nella tua vita così, senza un invito, senza preavviso, ti sega le gambe. Ti fa perdere tutte le tue certezze e ti riempie di tutte le tue paure più oscure, che spesso non riesci a capire.

La Paura,

Non lo sapevo allora ma quella ladra bugiarda mi aveva già in pugno quando ho iniziato a non capirci più un cazzo, quando sono tornata in Italia dopo quell’ultima notte in quella-stanza-d’hotel-a-Thamel, quando tutto stava ancora andando bene e io ero ancora io…

A Ottobre infatti a un certo punto mi sembrava di toccare il cielo con un dito: avevo deciso di rimanere un po a Brescia, avevo delle cose importanti da fare: il mio primo discorso in pubblico, la mia prima mostra, il TedX. Stavo realizzando alcuni dei miei sogni più grandi, ero piena di idee, di cose da dire, e c’era questo ragazzo, questo sfigatino grande come l’Universo, che adesso andavo a trovare spesso in quella-casa-con-quel balcone-in-quel-paesino, che mi faceva battere il cuore, un cuore che non pensavo più di avere. E più lo conoscevo, più mi piaceva.

Io che ero sempre stata bene da sola, con lui stavo meglio.

E per un secondo ho pensato “Ah, ma pensa, è arrivata, La Felicità, quell’unicorno. Allora esiste!” 

Ma la vita da e la vita toglie—crudele, sadica—e subito dopo quel pensiero, in un attimo, così, per una cazzata con tutte le lettere maiuscole, tutto è cambiato.

Lui è cambiato.

Freddo, distante, menefreghista, indifferente, stronzo. Da un giorno all’altro, si è allontanato, scappando ma senza lasciarmi andare, passando dal mandarmi foto dei tramonti sul suo paesino a non riuscire a rispondere nemmeno più a un messaggio, senza darmi tempo di capirci un cazzo. E più lui si allontanava più lei si impossessava di me, La Paura, quella stronza infame opportunista che non ha mai niente da offrirti e ti dice sempre e solo la stessa cosa: “NO. Scappa. Non sei abbastanza.”.

Io, che ero quella coraggiosa, che del coraggio ne aveva fatto uno stile di vita e la Paura la guardavo in faccia viaggiando da sola nelle zone più remote, sfidando la sorte sputando sul pericolo, urlando la verità addosso a un mondo corrotto, mi stavo cagando sotto e non avevo nemmeno il coraggio di ammettere i miei sentimenti a me stessa, figuriamoci a lui.

Io, che mi ero sempre raccontata di non aver bisogno di nessuno, di voler stare da sola e di non sentire niente, adesso ero terrorizzata, sentivo tutto, tanto, troppo. E non bastavo più a me stessa. E mi aspettavo che fosse lui a capirci qualcosa in questo casino di cui io non stavo più capendo un cazzo.

Certo Lui non aiutava a far chiarezza: andavo da Lui e tutto tornava normale, lavoravamo al sogno-con-la-S-maiuscola, ridevamo, parlavamo, cucinavamo—anzi cucinava lui (bene e con troppo zenzero) perchè io non riuscivo nemmeno a non bruciare un piatto di spinaci—guardavamo roba su netflix e facevamo sesso tutti i giorni; sembravamo quasi—oddio—una coppia! eravamo quasi—oddio—felici insieme!

Ma con un telefono di mezzo rieccolo Houdini, e il gelo più totale. E io mi sentivo sempre più sballata da questo loop bipolare, e non capivo più se mi fossi immaginata tutto o no.

Da lì è iniziato il viaggio nella mia testa lontano della realtà, un bad-trip di acidi continuo durato mesi: sprofondavo, veloce, sempre più giù, in una spirale di panico, ansie, paranoie, apnee, insicurezze, angoscie, mostri; scomparendo ogni giorno di più, annullandomi poco a poco, dimenticandomi di me, diventando l’opposto di chi ero sempre stata, iniziando a perdere peso perchè il cibo era diventato una violenza al mio stomaco contorto dal malessere che mi attraversava ogni angolo del corpo e della mente.

La persona forte e coraggiosa che pensavo di essere sempre stata se ne era andata, dissolta nelle mie insicurezze. Nella mia testa ormai c’erano solo Lui e il mantra delle voci assordanti: “Non glie ne frega un cazzo di me, sono solo la bionda da scopare, non mi vuole, perchè non mi vuole? Cosa ho fatto di male? ” e La Paura aveva sempre la risposta pronta:

Non sei abbastanza. Scappa.”

L’ho ascoltata.

Facendo quello che avevo sempre fatto per non affrontare i casini che ho dentro: prendendo un biglietto per l’India, per un mese e mezzo, a Dicembre.

Ma che cazzo vai a fare in India?”

Mi ha detto prima di partire, in bagno, mentre mi abbracciava da dietro guardandomi nel riflesso dello specchio, dopo 10 giorni passati insieme in quella-casa-con-quel-balcone-in-quel-paesino che adesso aveva una foto di noi due su uno scuolabus in Nepal incorniciata accanto a quelle che c’erano già prima di me.

E io volevo rispondergli che non ci volevo andare in India, che forse, forse, volevo stare li, con lui, che volevo Lui, e avevo una paura fottuta di perderlo; che avevo paura di dirglielo; che avevo paura che lui non mi volesse, paura che io non gli bastassi, che mi abbandonasse; che non mi andava bene il gelo di quando andavo via, che mi stava mancando di rispetto con la sua ambiguità continua, che non ce la facevo più a andare avanti così e avevo bisogno di sapere chi ero io per lui, di conferme ai miei dubbi, perchè io avevo sentito qualcosa-di-infinito; che stavo male così; che forse—oddio—lo amavo.

Ma dalla mia bocca invece è uscito solo un misero “Mi vuoi o non mi vuoi?” e non ho mai ricevuto una risposta concreta se non un discorso contorto sull’autoconservazione, su come forse la vera sfida per me adesso sarebbe stata prendermi una casa e imparare a non bruciare gli spinaci, e sull’inutilità di contrattualizzare, definire e mettere paletti.

E me ne sono andata così, ancora, in limbo.

Dentro di me sapevo che partire era la fine di tutto anche se tutto aveva già iniziato a finire, per la prima volta nella mia vita non volevo andarmene, e a 10.000 metri da terra mi sono ritrovata accucciata sul pavimento del bagno dell’aereo a piangere, piangere come non avevo mai fatto prima, tormentata dai dubbi di quel limbo agonizzante e dal ricordo di come era stato bello, tutto, prima. Su quel pavimento sporco di un volo Ukraine Airlines, nel mezzo di quello che si può tranquillamente definire un attacco di panico, ho lasciato gli ultimi brandelli della mia razionalità. (e forse della mia dignità)

Da lì ci sono solo una manciata di ricordi sconnessi, perchè Io in India non ci sono mai arrivata, ci è arrivato solo lo spettro di chi ero stata prima di Lui…

C’è stata la casetta nel mezzo della giungla; C’è stata una chiamata di 4 ore nel mezzo della notte: “Mi vuoi o non mi vuoi? se non mi vuoi ti prego, lasciami andare”…e non c’è stata—di nuovo—nessuna risposta concreta dall’altro capo del mondo; ci sono stati i giorni passati a fissare il soffitto e lo schermo del telefono aspettando che lui si facesse sentire e c’è stato il suo silenzio quasi totale nel mese che ha seguito quella chiamata; ci sono stati i dubbi che non mi facevano dormire “Non mi vuole o ha paura?”, impossibile rispondersi; c’è stato il ragazzo francese nella stanza accanto alla mia che mi faceva compagnia la sera sul portico, “Je sui trist”—gli dicevo mentre scartavetravamo noci di cocco che sarebbero diventati posaceneri—”C’est un connard”, mi rispondeva lui; Ci sono stati la nonnina indiana che mi insegnava a cucinare e il mio amico Shree che mi portava in moto al mare per farmi dimenticare; c’è stata la sofferenza, tanta, la rabbia, la  frustrazione, la disperazione, il limbo infinito e le sigarette, troppe; c’è stato scrivere questo libro, quelle prime 100 pagine che mi hanno salvata dal dar retta alle cose brutte nella mia testa; c’è stata la prima psicologa—su skype—che ho iniziato a sentire li, dal mezzo della giungla, perchè adesso avevo davvero bisogno di qualcuno che mi aiutasse a capirci qualcosa…perchè ero nei guai fino al collo.

Io che della strada ne faccio la vita, mi ero persa.

C’è stato il ritorno anticipato, il primo della mia vita, perchè non ce la facevo più a star sola con i miei mostri dopo un mese pericoloso di instabilità e isolamento nella giungla Indiana. E poi ci sono stati quei-3-giorni—pieni, devastanti—il cui ricordo mi spacca ancora in due oggi, che sono di nuovo me…

 

 

🎶📱RING RING

..Mi suona il telefono, è Ester: “Ape sul terrazzo?”

Ester è la ragione per cui sono ancora in piedi oggi. É la mia amica più cara, quella più preziosa, la più bella che ho e la persona più vera che conosco; e lei mi conosce meglio di tutti, forse meglio di me. Mi conosce dai giorni del liceo, quando ero ancora una ragazzina superficiale e un po stronza e non le piacevo manco tanto; mi ha vista cambiare 1000 volte in 10 anni, accogliendo a braccia aperte qualsiasi versione di me si trovasse davanti ogni volta che tornavo in Italia e passavo a trovarla. É una nuova e così vecchia amica, il mio specchio, la mia spalla, la mia roccia. Forte come pochi ma più umana di tutti. Da quando-tutto-ha-iniziato-a-finire mi ha ascoltata, consolata e cazziata allo sfinimento, con una pazienza irripagabile.

Le devo tanto: è sopratutto grazie a lei se adesso ho la MIA casa, se le cose brutte nella mia testa se ne sono andate, se sto riprendendo qualche kg dopo averne persi 12, e forse è grazie a lei se non l’ho persa del tutto, la testa, quando poi tutto è finito, Quel Giorno—il giorno di quella telefonata, il giorno più brutto—arrivato troppo in fretta dopo quei-3-giorni-pieni-devastanti di cui non ho ancora capito un cazzo.

Lei era lì.

E adesso abitiamo a 50 metri di distanza.

Arrivo!” le scrivo mentre scendo le scale verso i vicoletti del centro.

E’ ancora chiaro fuori, le giornate si stanno allungando. Dopo quella telefonata il tempo era diventato immobile, non passavano i minuti, ma mentre attraverso la strada mi rendo conto che i miei giorni hanno ricominciando a scorrere in fretta ultimamente.

Passo la macelleria marocchina, il kebabbaro pakistano, la lavanderia cinese e il mini-mart indiano. Mi piace il mio quartiere, è un quartiere popolare, multietnico, incasinato, mi ricorda un po i posti che vado a cercare nei miei viaggi, mi fa sentire un po meno straniera in questa città da cui sono scappata quando avevo 20 anni in cerca di libertà. Una libertà che ho trovato volando da Los Angeles, a Las Vegas, a Londra, a New York e poi in Asia, in Africa, in Medio Oriente; ma che, dopo 10anni passati in volo, mi ha isolata dal resto del mondo, facendomi venire una gran voglia di legami e di radici; una voglia che ho capito di avere solo quando tra tutte le persone che mi sono passate addosso ne ho incontrata una che non è passata.

Passo il negozio di Ramad e salgo veloce i 4 piani che portano alla mia casa preferita in assoluto—la sua—che è un buco soppalcato di 27m quadri, con un terrazzo gigante pieno di fiori che guarda il castello e che in questi mesi ha visto nottate infinite, nostre, piene di parole, birre, emozioni, qualche canna, risate, troppe sigarette e tante lacrime (quasi sempre mie).

Ciao Zia” mi dice mentre mi mette subito un bicchiere di vino in mano.

Ciao Zietty” la abbraccio e ci sediamo in terrazzo dove c’è un tavolo pieno di cibo.

Se non mangi le prendi!” mi dice col suo tono duro che però è il tono di chi ti conosce e ti vuole bene, bene vero.”Allora? Non ti ho più sentita ieri sera, com’è andata col tipo di Roma, il videografo?”

Eh…come vuoi che sia andata?!” le dico con la bocca piena coprendomi la faccia con la mano e scuotendo la testa, imbarazzatissima, mentre lei si mette già a ridere.

Lo sapevo che ci saresti finita a letto!”

Si ma era meglio se non ci finivo, è stato orribile amica! Cioè, non la cosa in se, quella era ok, in senso che non ero manco lì, indovina chi cazzo avevo in testa…TUTTO il tempo?!”

Mah, chissà!” Scuote la testa con aria di rimprovero.

Non riuscivo nemmeno a guardarlo in faccia, ti rendi conto? era anche un figo sto qui, sembrava un modello, e io zero oh, non mi sono nemmeno lasciata abbracciare dopo, mi son girata dall’altra parte e ‘Ciao, buonanotte!’ Stamattina non vedevo l’ora che se ne andasse per stare da sola.”

Sapevo che avresti detto anche questo Zia…” ride.

Cazzo ridi?! Una tragedia amica…”

Ma smettila dai, è stato così brutto?”

Ma no, è stato solo…sesso. Con Lui non era mai stato solo sesso, ma già dalla prima volta, era stato, non lo so, diverso. Ci guardavamo sempre negli occhi, c’era una sintonia strana, c’era qualcosa in più. Era sempre, bo…vero.

Ieri sera, è stata solo…”

Una scopata?”

Una scopata inutile.”

Eh, come sempre ti serviva sbatterci il muso. Adesso sai che il tuo mode NewYorkese chiodo-schiaccia-chiodo del cazzo non funziona più!”

Temo di no…” sospiro.

Dai zia, ma è ovvio che ti senti così, non sei più quella persona, lo sai. Non dopo tutto quello che è successo…” mi guarda col suo solito sguardo da ‘Smettila di raccontarti cazzate’.

Ahh che cazzo ne so, speravo che il tocco di un uomo mi avrebbe fatto sentire di nuovo una donna, o forse che mi avrebbe aiutato a dimenticare e voltare pagina del tutto, prima funzionava, e invece ieri mi sono sentita solo una sfigata.”

Ma va, perchè?!”

Perchè è assurdo dai, che anche con un figo della madonna nel letto io invece penso a Lui e mi vedo i suoi occhi stampati davanti, dopo essermi fatta prendere per il culo così, dopo come mi ha trattata, dopo come l’ha finita male…dovrebbe essere l’ultimo dei miei pensieri. Che cazzo c’è che non va in me?!

Datti tempo zia, son passati cosa, tre mesi…?”

 

 

 

Due mesi e mezzo da quei-3-giorni, due mesi e 3 settimane da Quel Giorno, il-giorno-più-brutto.

Ero tornata in Italia per Capodanno con mezzo libro scritto in India e con la coda tra le gambe. Lui ormai era sparito, silenzio totale da Natale, un silenzio che però faceva un rumore assordante nella mia testa.

Ho festeggiato l’Ultimo con i miei amici.

3,

2,

1,

Buon Anno!!!

Buon anno un cazzo!”

Ho pensato allo scoccare della mezzanotte, svuotando un bicchiere dietro l’altro sperando che almeno loro riempissero il vuoto che sentivo dentro.

L’indomani invece ero solo piena di nausea e mal di testa, e, in un hangover della madonna, sull’orlo del vomito, ho fatto un respiro profondo, e gli ho scritto, chiedendogli se potevamo vederci e parlare di tutto sto casino di cui non stavo ancora capendo un cazzo. “Domani parto una settimana per Berlino con i miei amici, scusa se mi son permesso di organizzarmi qualcosa che non si incastri con i tuoi piani di viaggio e rientri…” parole che facevano più male del silenzio, perchè mi trattava come una sconosciuta, perchè era come se tutti quei giorni e quelle notti in quella-stanza-di-hotel-a-tamel, in quella-casa-con-quel-balcone-in-quel-paesino me li fossi inventati; perchè dimostrava che non solo non aveva capito un cazzo di me, ma che non aveva nemmeno mai provato a conoscermi.

Dopo una serie di messaggi pieni di accuse e cattiverie da parte di entrambi—scritti come solo due persone che non si capiscono e non si ascoltano possono scrivere—vomitandoci addosso disprezzo, rabbia e frustrazione l’uno per l’altro in T9 abbiamo concluso che ok, ci saremmo visti al suo ritorno.

Quella settimana di merda non passava più, quando ci si innamora anche il tempo ti prende per il culo, scorre diverso, immobile, beffardo, ogni giorno senza la considerazione dell’altro diventa un eternità, a volte una tortura. E mentre Lui continuava il suo silenzio da Berlino, io dal terrazzo pieno di fiori di Ester, iniziavo a fare i conti con quello che era rimasto di me, facendo quello che non avevo ancora avuto il coraggio di fare ma che avrei dovuto fare sin dall’inizio quell’ultima sera in Nepal: guardandomi dentro e ammettendo per la prima volta a me stessa che si—io che pensavo di non aver paura di niente, che stavo meglio da sola e non avevo bisogno di nessuno—mi ero innamorata, mi ero fatta fottere dalla Paura, e ero ormai in caduta libera.

Che poi—quando riesci finalmente a essere onesto con te stesso—come se lo sforzo sovraumano appena fatto non fosse già abbastanza, arriva subito Quel Momento. Il momento dove capisci che non puoi più continuare a scappare e raccontarti cazzate; il momento che ti costringe a crescere, e stavolta devi essere coraggioso davvero e affrontare quello che più temi, perchè c’è un unica cosa rimasta da fare:

dirglielo.

Così, mentre aspettavo che quei giorni interminabili finissero, ho preso carta e penna per dirgli tutto nell’unico modo in cui riesco davvero a dire qualcosa, scrivendo.

6 pagine sofferte dove spiegavo il casino che avevo dentro, aprendomi il petto e porgendogli il mio cuore ancora sanguinante—da una relazione passata, sbagliata, che mi aveva quasi uccisa—mettendomi più a nudo che in tutte quelle notti trascorse nel suo letto. 6 pagine che finivano con una domanda, semplice, ma forse per lui la più complessa, perché richiedeva fiducia, e la fiducia è la prova più grande di coraggio: “Ci proviamo, vediamo come va?”. 6 pagine che ho letto e riletto fino a quando il treno si è fermato in quel paesino, e sono scesa, mettendomele in tasca.

Su quel treno, per la prima volta, mi ero fatta le domande giuste, tutte quelle che non mi ero ancora chiesta. Un monologo bilaterale tra La Paura e me:

E’ seduta li di fronte a me, Lei, La Paura. E’ da mesi che mi perseguita, non mi lascia in pace, si presenta sempre non invitata e nelle situazioni più inappropriate, pure di notte rompe i coglioni sta stronza. Mi assomiglia: ha i miei occhi, i miei capelli, gli stessi tatuaggi, la stessa infanzia. Ma nel suo sguardo non c’è niente di me.

È nervosa, continua a guardarsi intorno sospettosa, non riesce a star ferma e gioca con le dita continuando a far rumore con le unghie.

Puoi smetterla per favore, mi stai dando fastidio” le chiedo educatamente.

Non riesco, son nervosa…Dovresti esserlo anche tu, ti rendi conto della cazzata che stai per fare? Stupida martire masochista stai andando a farti spezzare il cuore.”

Grazie per le tue solite botte di ottimismo eh! Cos’altro posso fare? Sparire e non affrontarlo? Non ce la faccio, sto troppo male. Devo dirgli come mi sento, devo leggergli quella lettera.”

E se dice NO a quella lettera?”  mi chiede presa dal suo solito panico incontrollabile.

Farà un male fottuto” le rispondo cercando di star calma ma già sentendo quel male.

Riusciresti a reggerlo, il rifiuto? il Dolore?”

Boh, credo—oddio—spero.” Inizio ad agitarmi anche io adesso.

Guarda che non ce la fai!” Continua lei.

Non lo so, forse, forse no—oddio—e se non ce la faccio? e se mi mi perdo?” Adesso ho l’ansia.

Ecco appunto! Ascoltami, fidati di me, non ce la farai, sei già messa male adesso, poi ti dirà di no e ti perderai del tutto. O te lo tieni così—menefreghista, distante e codardo—e te lo fai andar bene, o lo perdi, punto.

No così no. Mi fa stare troppo male, mi fa sentire una nullità, come se io non contassi un cazzo.”

Perchè non glie ne frega un cazzo di te, non ti vuole lo capisci o no? gli facevi comodo per sesso, forse per lavoro, finchè si divertiva, finchè eri la travel blogger che partiva, finchè sei diventata vera. Adesso sei solo uno scazzo che non vuole avere, smettila di illuderti che anche lui senta qualcosa. Mai l’ha sentito e mai lo sentirà. Non ti rendi conto che tu per lui non esisti? Non sei importante punto.”

Forse hai ragione, forse no. Ma ho bisogno di sentirmelo dire da Lui. Se non gli dico come mi sento adesso lo rimpiangerò per tutta la vita. Se dice NO farà un male cane, ma soppravviverò, sono soppravvisuta a cose peggiori lo sai.” e inizio a sentirmi un po più calma.

Si ma adesso ti sei rammolita, guarda come ti sei ridotta, scheletrino, sei patetica tu e la tua lettera, ti riderà in faccia! Non sei nessuno per lui, non gli piaci abbastanza e non ha le palle di dirtelo in faccia, come cazzo faccio a mettertelo in testa? SCAPPA, torna indietro ti prego, sei ancora in tempo!” Urla a squarciagola, incurante dell’altra gente sul treno.

Non voglio più scappare, guarda dove mi ha portata ascoltarti—carogna traditrice—non sono più io. Mi sono fatta andare bene atteggiamenti che mi facevano star male per paura di non andargli bene, gli ho permesso di trattarmi senza un minimo di rispetto e considerazione per paura di perderlo e alla fine l’ho perso comunque. Ma non ero io, io non sono così, e voglio dimostrarglielo.

Ho deciso ormai non mi fai più cambiare idea. Adesso lasciami in pace, voglio leggere.” E inizio a sentirmi un po più sicura di me.

Fai come vuoi…te ne pentirai tanto” mi dice con cattiveria.

Vedremo!”  Le dico con tono di sfida e mi giro a guardare fuori dal finestrino dove la stazione di Novara appare all’orizzonte.

“…” 

La paura tace per un po, poi—stranamente tranquilla—riprende.

E se dice SI…?”

“…”  

Oh cazzo!

Quell’ultima frase mi spiazza… non ci avevo mai pensato prima. Ero così sicura che sarebbe stato un NO che manco avevo preso in considerazione l’ipotesi di un SI.

Improvvisamente mi sale una strana sensazione che non sentivo da tanto—da quando ero una stupida ventiduenne innamorata dell’America e stavo per firmare un contratto con scritto sopra per sempre—ma faccio finta di niente e rispondo frettolosamente:

E se dice di SI fantastico, felice e contenta!”

hmm…E poi?”

“…” Cazzo. 

Hai pensato a cosa porterebbe quel SI? Dopo quel SI poi lo sai che cosa arriva?

La vita vera!

Sacrifici, impegni, quotidianità. Una quotidianità che tu non hai da mai.

Sei sicura che fa per te Quella Vita, quella fatta di legami, quella di coppia? Ci hai già provato una volta, e guarda come è finita, ci hai quasi lasciato le penne!

Lui non è come te, lo sai bene, è l’opposto. Precisino, razionale, realista, calcolatore, cauto, cagasotto, cinico anche un po sadico. Lo reggeresti uno così? Tu, che vivi in un mondo di unicorni che vomitano arcobaleni? Tu lo spirito libero casinista e sognatrice a cui piace star da sola e che ha sempre messo la libertà prima di tutto?!

Pensi davvero che riusciresti a dividerti tra lui, i tuoi sogni e i tuoi viaggi? Lì in quel buco di paese a star seduta sul divano a far niente?

Tu, drogata di emozioni forti?

Tu che non riesci a stare nello stesso posto per più di un paio di settimane senza sentirti in gabbia?

Tu, che ti stufi di tutto il momento in cui lo ottieni?

E se ti dice di SI e ti accorgi che tutto sto casino era solo un capriccio, una questione di ego, e non eri davvero innamorata?

E se dopo aver fatto crollare i suoi muri ti stufi e lo abbandoni ributtandolo nel baratro da cui è a malapena uscito?

Se lo tradisci come hai sempre tradito tutti gli uomini che hai avuto tranne l’unico che si meritava di essere tradito? …Ci hai pensato a queste cose?”

“…” tacio.

Ci hai pensato?? Rispondimi!”

NO OK?” sbraito “Non ci ho pensato!”

Sento un qualcosa avvolgermi la gola.

Cazzo.

Cazzo, cazzo, cazzo! La coppia, la vita vera, la quotidianità—oddio—la quotidianità!

Mi sento soffocare. Faccio un respiro profondo e cerco di razionalizzare il tutto ma lei continua imperterrita:

E se un giorno vuole un figlio? Tu che sai benissimo che non avrai mai figli, tu che viaggi più di 200 giorni all’anno e il lavoro viene prima di tutto…che cazzo fai?!”

La morsa si fa sempre più stretta. Respiro.

1,

2,

3 respiri profondi.

Quella fottuta stronza sabotatrice riesce sempre a confondermi. Prendo in mano il telefono e inizio a scorrere le foto nella mia gallery, mi fermo sulla foto di una polaroid dove ci siamo io e lui seduti su uno scuolabus in Nepal, la stessa foto che Lui ha incorniciato accanto a quelle che c’erano già prima di me. La guardo per altri 6 respiri profondi e sento di nuovo le stesse farfalle nello stomaco che ho sentito il giorno che quella polaroid è stata scattata. E li lo so:

Si sbaglia.

Stavolta si sbaglia. Perchè che lui mi voglia o no, che lui sia uno stronzo menefreghista codardo che non riesce a dirmi in faccia che non mi vuole e mi sta usando, o solo uno sfigato che si caga di tutto, io lo so: che vale la pena provarci. Perché prima del gelo totale era diverso, perchè con lui non è mai stato solo sesso, perchè quella-casa-con-quel-balcone-in-quel-paesino era era uno dei posti piu belli dove fossi mai stata e tra le sue braccia uno dei pochi dove mi fossi mai sentita a casa, perché Lui è stato l’unico al mondo che sia riuscito a farmi dimenticare di me, per un attimo. Perchè con Lui ho sentito qualcosa-di-infinito.

E stavolta vale la pena restare, vale la pena provare, vedere come va, e forse persino—oddio—crescere.

Faccio un ultimo respiro e finalmente, dopo mesi di sottomissione al suo bullismo, le sbotto in faccia:

Shuuuuut up! Shut the fuck up, brutta stronza ingrata! Tutto quello di buono che ho fatto nella mia vita l’ho fatto senza di te, senza ascoltare i tuoi consigli codardi ho fatto tutto quello che volevo fare, ho avuto tutti gli uomini che volevo avere, ho visto il mondo. Se ti avessi ascoltata tutte le volte che hai provato a fermarmi non avrei mai iniziato a vivere davvero. E non c’è niente di male se adesso voglio rallentare un attimo. Avvicinarmi a qualcuno. Far avvicinare qualcuno.

Comunque vada.

Quanto mai ho iniziato a ascoltarti, nel giro di 3 mesi mi hai rovinato la vita!”

Ma, ma io cerco solo di proteggerti…” mi dice facendo la vittima.

Ma mi fai solo male invece. La Felicità non arriverà mai finchè tu cerchi di controllarmi. D’ora in poi non hai più voce in capitolo. So benissimo che non te ne andrai mai e mi perseguiterai per il resto della mia esistenza, ma non hai più il diritto di scegliere per me. Da qui in poi la mia vita la controllo io, chiuditi la bocca e vai a sederti su un altro vagone. Buon viaggio stronza!”

E senza obbiettare mi lascia finalmente in pace, e senza le sue urla in testa sento finalmente sussurare la voce dolce della Speranza—quella mendicante ottimista—dice che forse non era vero che non gli piacevo abbastanza, che forse anche lui aveva sentito qualcosa, che forse anche lui aveva paura, forse più di me. Paura di lasciarsi andare, di legarsi, di impegnarsi, di fidarsi, di perdersi. Paura che io mi stufassi, che lo tradissi, che lo abbandonassi. Paura di ricadere nel baratro da cui era a malapena uscito.

Un baratro che adesso conosco bene anch’io, e dove ho rischiato di dissolvermi…

 

.

 

Ester mi riempie di nuovo il bicchiere.

Uffa amica, lo voglio fuori dalla mia testa, non è possibile continuare così, devo uscire da sto impasse di merda…”

Ma ci sei già uscita zia. Ti ricordi com’eri, solo un mese fa? Ti ho dovuto raccogliere col cucchiaino, eri uno zombie cazzo! Non stavi in piedi, vomitavi ogni due per tre, non riuscivi più a lavorare, a leggere, a rispondere alle email, a mangiare, a dormire, non riuscivi manco ad aprire il computer…o instagram, cristo!! Se devo essere sincera per un po temevo non ti saresti più ripresa. Guardati adesso invece!”

Non riesco ancora a scrivere però…”

E chissenefrega! Hai fatto un millione di cose: hai trasformato un appartamento che era una merda in una Casa, abbiamo fatto un viaggio da paura in Iran con gente stupenda, domani vai in Vietnam e poi torni e hai l’Africa che ti aspetta dietro l’angolo; Hai un progetto nuovo che ti è piombato dal cielo, hai un sacco di nuovi amici, ti han chiesto di uscire in mille uomini, hai letto 7 libri e l’altro giorno hai fatto una cena indiana per 8 persone, TU, CAZZO! Altro che bruciare gli spinaci!

Che nessuno le abbia viste queste cose ma tu lo sai fa niente, anzi a maggior ragione, finalmente delle cose che sono solo TUE e non sono cose che fai per i tuoi followers su instagram!”

“…”

E poi zia, stai tranquilla che lui non ti uscirà di testa per un bel po, magari mai più del tutto, perchè anche se non sapremo mai se lui sia solo un pezzo di merda che ti ha usata e presa per il culo oppure uno sfigato che si è cagato sotto dalla paura—o entrambi—quello che hai provato tu era VERO, e le cose vere in un modo o nell’altro ti restano addosso, diventano le tue cicatrici ma sono pur sempre parte della tua pelle.”

“…” Sto zitta e assorbo le sue pillole di verità che vanno sempre a toccare i punti giusti.

L’era delle scopate fini a se stesse è finita zia!” Alza il bicchiere. “Non ti basteranno mai più, non dopo quello che hai sentito con lui, certe cose ti cambiano. Datti una pacca sulla spalla e fatti un brindisi, sei cresciuta amica! E fidati, la prossima volta andrà meglio.”

A crescere…” dico alzando il bicchiere e guardando di sfuggita il tatuaggio di Peter Pan che ho sul polso “…ma non crescere mai!”

Cheers zia!”

E mentre brindiamo penso agli ultimi mesi, a quanto lavoro ho dovuto fare per tornare a star bene dopo quella telefonata, a quanta strada ho fatto da quel giorno su quel treno che mi ha portata per l’ultima volta in quel paesino, e a quanta ancora ne ho davanti…

 

Ero uscita dalla stazione, con lo stomaco chiuso, il cuore in gola e il respiro corto. Quando ho girato l’angolo e l’ho visto—rieccole le farfalle—senza nemmeno rendermene conto per una frazione di secondo mi sono vista con i capelli bianchi, seduta su un divano, in un paesino qualsiasi, accanto a lui, e ogni dubbio che avevo avuto prima se n’era andato via col treno.

Sono salita in macchina e l’ho abbracciato, gelo e imbarazzo nell’aria, lo stomaco sempre più chiuso. Con la mia lettera in tasca e con addosso un vestito che non avrei mai avuto il coraggio di mettere se Ester non mi avesse convinta—con la sua efficacissima tecnica dello sfinimento—ero nervosa come una quindicenne prima di un interrogazione per cui non si ha studiato. Stavo per fare la cosa più terrificante che avessi mai fatto in vita mia, perchè, vedete, per una come me è facile viaggiare da sola in capo al mondo, o denunciare un sistema corrotto, ma far vedere a qualcuno quello che ho dentro, no, quello no, quello mai.

Un altro respiro.

Di nuovo lì, in-quella-casa-con-quel-balcone-in-quel-paesino, ho preso tutto il coraggio in me insieme alla patetica lettera che avevo in tasca e glie l’ho letta. Mi tremava la voce, mi veniva un po da piangere, mi girava la testa e il cuore mi esplodeva in gola. Arrivata all’ultima parola della sesta pagina, un silenzio interminabile.

L’amore è un tuffo.

To Fall in Love” vuol dire letteralmente cadere, cadere in amore. E ragazzi, si cade davvero. Precipiti, giu’, veloce, nel vuoto, senza freni, senza più il controllo di te. Perchè la tua vita non ti sembra più tua.

Cadi, cadi, cadi,

e speri che alla fine di quel precipizio ci sia qualcuno a prenderti, e sai bene che se nessuno ti prende ti farai un male fottuto. Quello che non sai però è se soppravviverai allo schianto… 

“…”  silenzio infinito.

Cadi,

Cadi,

Cadi.

E poi…

Ma io non sono innamorato di te.”

BUM! 

Lo schianto.

Che lecca cazzo.

Un giorno, senza che te ne accorgi, qualcuno ti entra dentro e mette sottosopra tutti i pezzi rotti che hai, mischia tutto: quello che credevi di essere, quello che non volevi mai essere. E quando quel qualcuno ti dice “Io non sono innamorato” fa male, 

la testa,

il cuore,

la pancia,

anche le gambe, male dappertutto.

Ti devasta.

Ti ribalta.

Non sai quasi più chi sei.

Però,

Però ero ancora lì.

Pensavo sarei morta ma respiravo ancora.

Respiri.

Perché anche se sei a pezzi e tutta dolorante la vita fa quello che fa dall’inizio dei tempi: va avanti.

Un altro respiro profondo.

E con le ultime forze rimaste:

Ma non  è QUELLO il punto!”

Ed eccomi ancora lì, tirandomi su a tentoni e senza fiato dal cratere di quella caduta, nel tentativo disperato di  combattere la mia ultima battaglia, quella più tosta, cioè quella di spiegare qualcosa di inspiegabile, di far vedere la possibilità dell’impossibile a una persona che cerca sempre e solo di razionalizzare l’irrazionalizzabile.

Si innamora sempre prima una persona sola cazzo! Non ti sto chiedendo di essere innamorato, di sposarmi o di andare a vivere insieme, ti sto chiedendo se senti qualcosa, se vuoi provare a dare la possibilità a qualcosa di bello di nascere, di vedere come va…”  provo a spiegarmi.

Ma tutto quello che avevo potuto dire non sarebbe servito a niente. Perché ero caduta, perché io ormai pensavo solo con il cuore e lui sempre e solo con la testa, perché io avevo passato la vita volando e lui con i piedi saldi a terra; perchè io della vita mi fidavo, mi ci buttavo dentro, me la facevo sbattere addosso, e lui la osservava, l’analizzava, la calcolava, pesava i rischi; perché lui aveva un suo mondo intorno a quella-casa-con-quel-balcone-in-quel-paesino ma l’unico mio mondo rimasto era quello che vivevo nei miei viaggi;

Volevo dargli tutto ma non avevo niente da offrirgli se non me stsessa, una me che pesava 12kg in meno e che si era dimenticata chi era.

E infatti:

E se io non mi innamoro?”

Il knock down finale.

Perché non si può dare un senso all’amore, non si può misurare, calcolare; bisogna viverlo, lasciarlo fare, vedere come va.

Da lì quei-3-Giorni, pieni, devastanti, per tutti e due (credo).

Giorni che non so descrivervi perché sono stati tutto un sentire, ho sentito tutto ma non ci ho capito niente, e me li ricordo a flash.

Sono stati giorni pieni di parole a vuoto, in cerchio, arrampicatrici; un rollercoaster emotivo che ci scaraventava prima in cielo poi sotto terra.

La Folie à deux.

Io persa negli occhi di un Universo, anni-luce lontana da me.

Lui terrorizzato, dalle mie costole ormai troppo sporgenti, dal mio bisogno di lui, dalla responsabilità, tutto un peso.

Ci siamo persi entrambi un un gioco di matti, non capendoci un cazzo, crollandoci addosso.

Il respiro che mancava; gli abbracci che non finivano; le lacrime di entrambi che scorrevano per colpa di un addio che però non riusciva ad arrivare.

Il caos.

E quell’addio non c’è mai stato. E la follia più pazza di tutte è stata concludere quei giorni devastanti con niente, se non una manciata di parole confuse, un “Non lo dico con le tue parole ma ok, vediamo”, un bacio in macchina alla stazione e un “Ti voglio bene, lo sai.”

Aria.

Nuovamente su quel treno—di ritorno verso quella che allora era ancora una terra di mezzo—ero esausta, svuotata di tutte le parole e di tutte le lacrime che una persona può avere in se, ma sollevata: pensavo di aver avuto le conferme che Lui non mi aveva mai voluto dare prima, le avevo viste scorrere sulle sue guance ogni volta che provavo a dirgli addio, le avevo sentite nei suoi singhiozzi, nei suoi respiri profondi con gli occhi chiusi.

Ma non bastava, perché ero già caduta.

E anche se la paura adesso se ne stava a due vagoni di distanza, la mia insicurezza–quella troia autosabotatrice —era ancora seduta davanti a me e mi guardava dritta negli occhi con lo stesso sguardo da ‘smettila di raccontarti cazzate’ di Ester, uno sguardo premonitore, forse apocalittico.

Infatti, il secondo schianto di questa storia—il più grosso della mia vita e molto più doloroso di quello che aveva fatto la mia faccia finendo sul pavimento anni prima—sarebbe arrivato a breve, con una telefonata dalla quale mi sono quasi fatta distruggere la vita.

Perché non ero pronta allora, per sentire, per innamorarmi, per l’amore….

Ma in fondo chi lo è mai stato?

TO BE CONTINUED…